La Basilica di San Domenico custodisce una delle opere più preziose della storia dell’arte medievale e una delle tappe immancabili per chi visita il patrimonio artistico di Arezzo: il “Crocifisso” di Cenni di Pepo, meglio conosciuto come Cimabue.
L’opera databile al 1265-71 è considerata il capolavoro giovanile del maestro di Giotto, indicato da Giorgio Vasari come il primo grande innovatore della pittura occidentale.
L’imponente croce sagomata e dipinta a tempera e olio su tavola propone l’iconografia del “Christus patiens”, con gli occhi chiusi, la testa appoggiata sulla spalla, il corpo inarcato a sinistra e la muscolatura marcata, anche se l’anatomia è meno semplificata rispetto agli esempi precedenti e il chiaroscuro aiuta ad aumentare i volumi e la tridimensionalità.
L’opera è considerata da sempre affine al grande “Crocifisso” di Giunta Pisano realizzato per la Basilica di San Domenico a Bologna, punto di riferimento per i pittori che dalla metà del XIII secolo affrontarono il tema della crocifissione. L’artista fu infatti il primo italiano a rappresentare Cristo sofferente e con gli occhi serrati sulla croce, anziché con gli occhi aperti e trionfante, com’era tipico della tradizione bizantina. Allo stesso tempo, Giunta Pisano fece piegare il corpo di Gesù verso sinistra, accentuandone il senso di supplizio.
Con la sua tavola sagomata Cimabue riuscì a fare un ulteriore passo in avanti, portando la sua arte a distaccarsi dal linguaggio pittorico bizantino, in favore di un maggiore realismo e un espressionismo che i suoi allievi svilupparono in seguito in modo determinante.
Il Crocifisso della Basilica di San Domenico presenta le figure dei due “dolenti” a mezzobusto, alle estremità del braccio orizzontale della croce. Entrambi – la Madonna a sinistra e San Giovanni Evangelista a destra – poggiano la testa nella mano in segno di sofferenza. Le sottili striature dorate delle loro vesti sono un espediente per aumentarne la luminosità.
Sopra alla testa di Gesù, nella cimasa, si legge la classica scritta in latino “Hic est Iesus Nazarenus Rex Iudeorum”, ovvero “Questo è Gesù Nazareno re dei Giudei”, solitamente abbreviata con l’acronimo I.N.R.I. Al di sopra si nota la clipse circolare, con il Cristo benedicente, ancora a mezzobusto.
La parte della tavola sagomata che va dal torace ai polpacci è arricchita da un raffinato motivo geometrico. Alla base della croce non ci sono figure, ma solo i rivoli rossi di sangue che cadono dalle ferite provocate nei piedi dai chiodi. Il rosso della passione è suscitato anche dal colore del perizoma.
I colori usati dal maestro toscano nell’opera giovanile sono brillanti. Con la sua intensa opera Cimabue mirava a stimolare le emozioni dell’osservatore, aumentandone il senso di compassione e partecipazione al dolore di Cristo. Non è un caso che la tavola fosse stata commissionata dai frati domenicani, che assieme ai francescani e agli altri ordini mendicanti nati del Duecento sostenevano una religiosità più umanizzata.
La chiesa, in stile gotico, ha una facciata asimmetrica in muratura che comprende un campanile a vela dotato di due campane. L’interno presenta una sola navata con tetto a capriate e prende luce da 12 finestre monofore (6 per lato) la cui distanza reciproca diminuisce via via che ci si avvicina all’abside, conferendo così un maggior senso di profondità all’aula. La decorazione pittorica interna risale alla seconda metà del Trecento e fu realizzata da Spinello Aretino e da suo figlio Parri di Spinello. I lavori di costruzione iniziarono nel 1275 per terminare nel XIV secolo tuttavia, nel gennaio 1276, la chiesa ospitò quello che per la Chiesa di Roma fu il primo conclave della storia.